Il demansionamento nei casi di riorganizzazione aziendale

Il demansionamento è l’atto che consiste nell’assegnare al lavoratore mansioni inferiori rispetto alla propria qualifica, oppure, nel non assegnare alcuna mansione. Tale atto è generalmente vietato dall’ordinamento giuridico perché costituisce una violazione del diritto del lavoratore a svolgere un’attività lavorativa coerente con la propria professionalità.

Il D.Lgs. 81/2015 (JobsAct) ha riformulato l’art.2103 del Codice Civile in tema di demansionamento: la nuova norma prevede che in caso di riorganizzazione degli assetti aziendali, il datore di lavoro possa modificare unilateralmente le mansioni del lavoratore anche in senso peggiorativo. Il trattamento retributivo del lavoratore non può subire variazioni, e la modifica può avvenire solo nei limiti del livello immediatamente inferiore e nell’ambito della stessa categoria legale (art.2095 Codice Civile).

La sentenza n° 23945 del 24/11/2015 della Corte di Cassazione si allinea con le recenti modifiche normative. Nel caso in esame non costituisce presupposto per il demansionamento la sola perdita di uno specifico potere del lavoratore causato dalla modifica dell’assetto aziendale.

Nelle motivazioni della sentenza la Corte spiega che nuove esigenze produttive e organizzative dell’impresa possono legittimamente determinare mutamenti nei compiti e nelle responsabilità soprattutto per le qualifiche più alte. Questi mutamenti peggiorativi, seppur non gratificanti per il lavoratore, non costituiscono una violazione del diritto, rientrando a tutti gli effetti nel potere del datore di lavoro di gestire e organizzare l’azienda.

Nel caso di specie al lavoratore veniva tolto potere decisionale e potere di firma su rapporti giuridici sostanziali: non per una sfiducia nei suoi confronti ma, a seguito della fusione con un’azienda più grande e la soppressione delle piccole filiali, si rendeva necessario accentrare le funzioni direttive.

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